Qui trovi l’articolo del “Giornale della Vela”

E adesso possiamo dire di averla fatta. La regata di altura più famosa al mondo, Il Fastnet, ormai è a poppa, e ci ha regalato momenti da leggenda che difficilmente potranno essere dimenticati. Partecipare al Fastnet, per il velista normale, è un po’ come immergersi nella storia dello yachting e la prima sensazione che si prova è quella di essere piccoli, ma importanti ed anzi indispensabili a far grande questo nostro mondo.

La partenza nel Solent è una cosa straordinaria; le due luci di allineamento per la linea di partenza, poste sul Royal Yacht Squadron, e lo sparo della batteria di cannoni ti costringono a dare il meglio con qualsiasi condizione, c’è un che di rito sacro nei minuti precedenti lo start, e poi…..la corsa verso i Needles con vento fresco da ovest ci ha regalato degli incroci da brivido, dei “peli” alle secche calcolati al metro, il tutto con il mare che schiumava dalla forza della corrente a favore. Nemmeno i meravigliosi prati dell’Isola di Wight e le rocce bianche dei Needles ci potevano distrarre dall’altro meraviglioso spettacolo: trecento barche che si sfidano virata su virata sotto un cielo terso, che esalta le chiazze di colore delle cerate e degli scafi sponsorizzati. Uno spettacolo. Lasciato il Solent cominciano i calcoli; inversioni di marea, rotazione dei venti sottocosta, quanto stare discosti da Anvil Point, Portland, Start Point, con tre occhi sulle strategie degli avversari e le loro regolazioni. Ma in testa c’è l’arrivo a Cape Lizard, un altro di quei luoghi che incutono rispetto nel solo pronunciarne il nome; da lì si lascierà l’Inghilterra e si dovrà affrontare l’Atlantico del Nord. Un traguardo all’interno della regata, ed il pur insidioso Canale della Manica ci sembra il mare di casa. Il vento da fresco si riduce a teso e poi a moderato, issiamo il genoa leggero ed una lieve rotazione a nord ci permette una rotta diretta sul capo, che ci appare la mattina di lunedì, grigia come solo in Cornovaglia può esserlo, con il bianco dell’edificio che contrasta con il verde della collina ed il marron scuro della costa a picco. Siamo in buona compagnia, un First 44.7 Race e i due Figaro II sono attaccati a noi, barche sicuramente più veloci e questo ci rassicura su come sta procedendo la nostra regata. Le comunicazioni hanno un picco di frequenza; non sentiremo per un po’ i nostri cari, e chiacchierare con loro fino a Land’s End e un po’ come portarli con noi in Atalantico. Anche l’ultimo bollettino meteo ci mette un po’ sulle aspettative e fra tutti quelli ricevuti, ci prepariamo al peggio: ci aspetta un sud-ovest con punte fino a 27 nodi.

La notizia di Rambler scuffiato, un mostro di 100 piedi, ci rattrista ma non ci impensierisce, siamo pronti a tutto ed allenati per affrontarlo. Come da previsioni il vento rinforza verso sera, ormai lontani dalla costa e con le onde alte e lunghe dell’oceano che si gonfiano in fretta. Con tenacia rimaniamo invelati con una mano ed il leggero fino ai 22-24 nodi, di bolina larga e con la prua che non risparmia un’onda; in coperta tutti bagnati e salati, è arrivato l’Atlantico. Come al solito il vento reale è più forte di quello previsto. Le raffiche hanno superato di un bel po’ i trenta nodi e per cambiare in sicurezza il genoa ci siamo messi per un attimo al gran lasco. Tutto perfetto, resta solo da dimostrare al mare che sappiamo sopportarlo con rispetto e che abbiamo un appuntamento per sera con lo scoglio più famoso al mondo, il Fastnet Rock, e non possiamo mancarlo.

Insieme alle coste fatate dell’Irlanda spuntano decine di alberi delle barche in regata e tutti, a bordi e con il vento che rapidamente si attenua, convergiamo sulla boa di ritorno, avvolti da una luce crepuscolare che solo queste latitudini riescono a regalare ai marinai. A poche miglia dal faro il vento sparisce, ma riusciamo a spostarci grazie al rollio creato dalle onde al traverso ed alla randa lasciata libera, quasi un nodo di velocità “pompando” la randa in modo naturale, Piccole soddisfazioni che ci permettono di girare il faro in anticipo sul gruppo intorno a noi. Alla velocità con cui ci avviciniamo riusciamo a fare un count-down con i centesimi di miglio e alle 4.16 minuti e 23 secondi del 17 agosto rileviamo il Fastnet esattamente per sud. Oltre a battere il cinque credo che a tutti sia passato un brivido nella schiena.

Era questo il momento che aspettavamo ed è sicuramente più bello di quello che potevamo immaginare. L’emozione comunque ci fa esagerare un po’ nell’avvicinamento allo scoglio; lo spinnaker non è così gonfio e trenta metri dalle rocce sono un po’ pochi, quindi decidiamo di accendere il motore per sicurezza. Lo sguardo allucinato di Giulio, uscito da sottocoperta in quel momento, riassume perfettamente la situazione di quell’istante. Al rumore inquietante ed altissimo delle onde che frangono sullo scoglio, si sovrappongono i colori di uno scuro profondissimo delle rocce illuminate dalla luna e su tutto c’è il silenzio del motore che non parte. Batterie giù. Ed il Fastnet Rock è sempre più vicino. Le gambe ci hanno tremato per cinque interminabili minuti, ma da quando abbiamo dovuto girarci verso poppa per osservarlo è tornata, anzi aumentata, la grinta di andare avanti, anche senza strumenti, luci o diavolerie elettroniche. E’ stata la notte in cui nessuno ha dormito se non per brevi momenti, tanti caffè e tanti sguardi d’intesa tra di noi. Le sette miglia che ci separano alla Pantaenious Buoy le abbiamo fatte come stessimo regatando a bastone. Strambata africana in boa con equipaggio in assetto da combattimento, usciti dalla boa di bolina larga tutti in falchetta sopravvento e via ad otto nodi con prua sulle Scilly. Il vento ci aiuta e l’Oceano ci grazia, 150 miglia in 20 ore già ci fanno pensare alla finish line ed alla bistecca che ci aspetta subito dopo, per non parlare del regalo al capitano: poter festeggiare il suo compleanno a terra, giovedì sera. La sagoma di Nordwind, uno splendido yawl del ’39, che ci passa sottovento al traverso di Bishop rock, di notte, aumenta ancor più l’atmosfera magica che permea questa sfida, con i delfini che ad intervalli regolari ci si affiancano, salutano e poi, probabilmente, fanno lo stesso con le altre barche. Da larga la bolina passa a stretta, ma rimaniamo invelati al massimo e la rotta è quasi diretta su Cape Lizard, da lì poche decine di miglia ancora ed entreremo nel porto da cui partì James Cook per le sue tre spedizioni intorno al mondo:

Plymouth, sembra un sogno. Il vento scema di nuovo, pare una costante in prossimità dei luoghi più famosi di questa regata, e con il vento leggero partono le tattiche: portarsi sottocosta o raggiungere il largo? Decidiamo per la prima soluzione, subito seguiti da altre barche, ma più ci avviciniamo alla “lucertola” più il vento cala, e se non lo passiamo per le dodici ci aspettano forti correnti contrarie. Cosa che puntualmente avviene e dopo aver passato una striscia di mare ribollente larga al massimo trenta metri che parte dal capo e sembra debba finire in Francia, la lotta è fra noi e la marea, che ostinatamente ci spinge di nuovo a riva. Il rilevamento sul bianco edificio del faro rimane inesorabilmente costante per un’eternità, ma tre mosse azzeccate, issata di spinnaker per primi, successiva strambata e di nuovo il leggero a riva, ci permettono di lasciarci dietro il gruppo di 50 barche che si era formato in poche ore, fra cui una di francesi, a dieci metri da noi, con cui abbiamo scambiato delle piacevoli scortesie. Il vento continua a variare sia in direzione che in intensità e noi ci teniamo ben discosti da terra per motivi di sicurezza, non avendo altro tipo di propulsione se non il vento meglio averne rispetto, ma non fidarsi troppo. Verso le cinque si distende e sembra quello giusto per arrivare a Plymouth. Unico dispiacere e che lo hanno presso per primo tutto il gruppo sottocosta, che ormai è 3-4 miglia avanti. La carica comunque si fa adrenalinica e nessuno riesce a riposare, anche se i tentativi non sono mancati. Pian piano ci avviciniamo e superiamo qualche barca, perfino un Pogo 40, stupiti che un attrezzo del genere non sia già arrivato. Da quel momento la concentrazione ha raggiunto i massimi livelli di tutti i 4 giorni. Ci si dividono i compiti nel dettaglio pensando all’arrivo: navigazione, comunicazioni con la giuria, chi rimane a regolare le vele, chi accende le sigarette al timoniere, ed il tutto spostando i pesi ad ogni minimo variare del vento. La corsa ci stimola e ci dà tante soddisfazioni; ad una ad una passiamo tante barche e sembra ne rimangano solo 5-6 davanti, più qualcuna che inspiegabilmente si è presentata da dritta. E’ quasi fatta e, se non cambia qualcosa, solo di poco sforeremo la mezzanotte. Nessuno di noi crede alla magia, ma quello che ci è apparso a tre miglia dall’arrivo si avvicina di molto all’imponderabile. Più di un centinaio di luci in testa d’albero all’interno della baia di Plymouth, vicinissime tra loro in un mare che rispecchiava anche le stelle, da quanto calmo era, in un silenzio ovattato che anche un minimo sussurro si propagava basso e soffuso; e noi con un abbrivio più alto, che superavamo tutti di slancio, euforici ed incredibilmente meravigliati. Anche qui siamo stati i primi ad issare lo spi alla prima rotazione del vento; ed altre barche superate e poi… poi, a 200 metri dalla linea un fiume di corrente contraria ha preso noi e poche altre barche intorno e ci ha spinto indietro ad una velocità che ci è sembrata folle, ingiusta e diabolica. Tre volte abbiamo calato l’ancora per arrestare questa pazzesca marcia indietro e per tre volte ci è parso di risalire, ma ormai le barche a poppa si contavano con le dita di una mano e l’amarezza ci ha avvolto come una coperta di lana, ma le ossa sono rimaste fradice per molto tempo. Alle 02 16 minuti e 23 secondi il corno della giuria ha suonato anche per noi; caliamo subito l’ancora senza nemmeno provare a raggiungere il porto a vela e con lo sguardo spento aspettiamo un traino per raggiungere le banchina. Ma il sonno dei giusti ci ha fatto bene ed al risveglio, piano piano, all’amarezza si è sostituita la consapevolezza dell’impresa portata a termine, tutti i meravigliosi ricordi e l’orgoglio di esserci stati. A tutti noi dieci (anche Emanuela era con noi) rimarrà per sempre un pezzetto di mare Inglese dentro.. e ce lo terremo ben stretto.

Ettore Baldo

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